C’è Mario, che aspettava di mangiare la pizza di granturco con la figlia in braccio quando la terra ha iniziato a tremare: ha perso tutto, vive da anni in un container. Ci sono due ragazzi che si baciano in una macchina, il terremoto li coglie in quel momento di dolcezza. C’è Benedetto Croce, che riprende i sensi a not
C’è Mario, che aspettava di mangiare la pizza
di granturco con la figlia in braccio quando
la terra ha iniziato a tremare: ha perso tutto,
vive da anni in un container. Ci sono due ragazzi
che si baciano in una macchina, il terremoto
li coglie in quel momento di dolcezza. C’è
Benedetto Croce, che riprende i sensi a notte
fonda e si trova coperto dalle macerie fino
al collo, e c’è Gaetano Salvemini, che
sopravvive alla moglie, ai figli e a una sorella
perché si aggrappa all’unica parete che non
crolla. Il terremoto del 1980 in Irpinia, che
travolse una terra già segnata dall’emigrazione,
e la ricostruzione, che produsse tanti guasti
ma non ha portato via la grazia antica di quei
luoghi. Gli altri terremoti italiani, da quelli
di Messina e Avezzano ai più recenti dell’Emilia,
de L’Aquila e delle Marche. E in mezzo tante
disgrazie collettive, imprevedibili o dovute
all’incuria umana: Franco Arminio parte dai suoi
luoghi e allarga lo sguardo per rievocarle
a una a una, scavando tra le macerie con
l’indignazione delle sue prose civili e la dolente
tenerezza dei suoi versi. Questo libro è al tempo
stesso un inedito catalogo delle nostre fragilità,
di tutte le volte in cui la Terra ci ha ricordato
che siamo piccoli quanto formiche sul suo grande
dorso, e un appello rivolto a chi viaggia distratto
attraverso le persone e le cose, perché “quello
che è accaduto non è frutto del caso o di una
congiura, [] non riguarda solo chi è morto o i
suoi familiari, riguarda noi e i nostri figli, riguarda
soprattutto chi non c’era.” Arminio chiede
con ardore alla letteratura di farsi testimonianza,
ci ricorda che l’ascolto e l’attenzione alle parole
sono il primo passo per ricostruire la speranza.
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